giovedì 24 gennaio 2013

Quaderno Millimetrato


Sai, l'ultima parte del giorno, trascrivo. Ora ti so 
in piccola cornice. Era una compagnia 
disordinata il tuo sorriso, madre. Luogo minimo. 
Transitorio. Ho difficoltà di mani a trascinarti 
qui. Vive così poco l'erba a casa mia. I petali 
restano nel bicchiere, la direzione degli occhi, 
sui rovi cade. Qui ti vorrei, nome e indirizzo 
precisi, equivoci a scansare. Diventa la morte 
uno scompartimento d'addii. Una frolla 
abitudine senza vita. E del tuo dolore in scena. 
Sul divano, io. Te. Le spalle tagliate. Restando





Non sono un poeta né un poesologo e credo che la poesia possa essere di-spiegata soltanto dalla poesia, ché un sapore può essere compreso solo dal senso del gusto. Tuttavia, oggi – e forse solo adesso – vorrei cimentarmi in una lettura personale e non rispondente al vero del Quaderno millimetrato di Dorinda Di Prossimo; per il sentimento immediato di confidenza buona che mi ha suscitato l'autrice non appena incontrata, per la pacificazione che mi ha donato sentirla leggere le sue poesie, per averle lette a mia volta e averne tratto il senso del giorno dopo, quello che torna alla mente come il sentore di qualcosa che ha contato, lasciando un segno o un segnale. 

Il quaderno è millimetrato perché il nostro corpo che s'avanza nello spazio del tempo è così prezioso da necessitare esattezza, quella di ogni nostro rifugio che per essere tale deve essere assolutamente definito, delimitato, come le tasche per le mani che sanno dove cominciano, dove finiscono, fin quanto in fondo è consentito immergersi. 

Appare, immediata, la vita totale di una donna che vive da sola [o così a me è parso, come un discorso a uno], nella casa dei piccoli gesti quotidiani, la polpa del caffè, la colletta della nicotina, gli orecchini e qualche gioiello della madre, scorci da cui allo sguardo degli occhi rimbalza in eco il ricordo. E di ricordi – ricordi dell'ora, del prima e del prima adesso e qui – dove una donna si specchia e si riflette una bambina avvolta dalla grande vestaglia della madre – ché il freddo dei rifugi è sempre stato il caro prezzo delle minute libertà. E i timori in sospensione nell'atmosfera lattiginosa di un'ora tarda o presta, purché sia l'immobile momento del giorno in cui tutti ancora dormono e lei sussurra e ti racconta senza fronzoli [ma circondata di qualche fronzolo tintinnante] cosa è quell'istante, cosa è il suo corpo adulto, contratto, sensuale di seta del fruscio così flebile che esiste immaginato. E il fastidio per un vicinato omologante e legislatore. E il dialogo franco col padre poeta di presepi e la madre dagli appunti come punture d'ago. E un amore sconfinato, che s'arresta un millimetro prima di finire.


F. Alessandro Motta

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